Il Fatto grave è che oltre all’ordine di questo mondo ce n’é un altro.
Antonin Artaud
Lo
scritto di Artaud datato 1947 è il punto di partenza del processo rituale nel
quale l’attore liminale (che agisce al suo limite) deve abbandonarsi.
Prima
di compiere il “gesto” teatrale, che per definizione è extraquotidiano, cioè
fuori dalla comodità nella quale ognuno si rifugia, prima di innalzare il
proprio “gesto di vita” deve capire e sentire che tanti altri modi, modalità
d’espressione sono possibili. Tra questi gesti vi sono quelli che per primi non
riescono oppure quelli che creano delle insicurezze. La ripetizione meccanica,
durante il suo training, di gesti “difficili” permette all’attore di creare, attraverso
la riproduzione degli stessi in spettacolo, una tensione comunicativa,
evocativa ed emotiva unica.
Lo
spettro delle azioni, delle vocalità che può e deve raggiungere per “dare vita”
sono al dì fuori dello schema di un mondo preordinato e definito, voluto e
imposto, ma soprattutto al di fuori di ciò che l’individuo è, in quanto essere
sociale. La diretta conseguenza è che c’è un muro da abbattere, e questo muro
non è certo la società nella quale viviamo. Il nemico da sconfiggere è dentro.
Sarebbe troppo facile scaricare sulla società, che noi tutti abbiamo
costituito, il problema di raggiungere delle vette alte di tensione attoriale.
Per voler cambiare le brutture bisogna agire all’interno di se stessi,
chiedendosi sempre “siamo disposti ad abbandonare la comodità del facile perché
piace?”
Nulla
ci appartiene, tanto meno la nostra
vita, come possiamo darle un senso e un’appartenenza? Quale è l’atto di
vitalità assoluta che ci permette di dire questa è la mia vita oppure vivo la
mia vita. Oppure qual è il gesto che rende l’attore “vivo” e non la marionetta
di se stesso?
La
vita ha un senso solo quando se ne vede la fine come diceva Jacques Rigaut. Il
suicida si oppone con violenza, sia alle leggi naturali che a quelle culturali
e divine, riprendendosi e allo stesso tempo togliendosi ciò che gli dovrebbe
appartenere.
L’attore,
allo stesso modo, nel rituale dell’azione teatrale deve rinunciare al mondo
facile e trasportarsi in un altro mondo, arrivare nel confine tra reale e
irreale che è lo stadio liminale. Da momento in cui si trova nel confine da lui
stabilito, nell’altro mondo possibile potrà mostrare ciò che è assente cioè la
sua vita.
Se
l’attore abbatte abbatte ciò che non gli appartiene mostra la vita.
Se
l’attore, usa comodamente quello che sa fare, pensando che la vita gli
appartiene per diritto naturale e divino, mostra il mondo che una particella
infinitesimale della vita.
Il
suicidio è il più grande atto di vitalità. Il gesto estremo di togliersi, per
propria volontà, qualcosa che non ti appartiene permette di riappropriarsi di
ciò che casualmente ci hanno fatto credere sia di nostra proprietà e possesso.
L’attore
in scena diviene suicida, non rinunciando a se stesso e alla sua vita,
abbandonando il mondo.